“One Healt”, la sanità che coniuga uomini, animali e ambiente in un triangolo virtuoso, è la soluzione auspicata anche dalla virologa Ilaria Capua nel suo libro ” Il dopo. Il virus che ci ha costretto a cambiare mappa mentale”. E la sempre vexata quaestio degli allevamenti intensivi e la loro iperdiffusione in aree ristrette, potrebbe nel prossimo futuro trovare una decisiva stanza di compensazione “bresciana” nel Centro di referenza nazionale per il Benessere animale che ha sede presso l’IZSLER

L’affermazione è secca, paradigmatica, del tutto condivisibile, e di drammatica attualità: “ Nessuno è onnipotente: siamo tutti animali”. E’ il lascito del coronavirus e della pandemia che Ilaria Capua, virologa di fama internazionale e ormai volto familiare degli schermi, rilancia in continuazione. E’, per cosi dire, la sintesi del pensiero – condito da scienza e da coscienza – del suo libro “Il dopo. Il virus che ci ha costretto a cambiare mappa mentale” attualmente in libreria e in edicola. Medico veterinario di formazione – e in questo forse trae origine la sua visione a tutto tondo e non antropocentrica della medicina – la prof.ssa Capua è da sempre impegnata nello studio delle malattie virali trasmissibili dagli animali all’uomo. Come darle torto? Il 70 per cento delle malattie infettive che colpiscono l’uomo “arriva” infatti da un animale e le epidemie che ne derivano sono sempre più ravvicinate. Il calendario, a noi vicino, degli orrori epidemici ci avvisa che nel 2002 fu la volta della SARS, proveniente come il Covid 19 dal pipistrello; nel 2003 nel Sudest asiatico è scoppiata l’infuenza aviaria (determinante il ruolo della Capua nel suo studio) proveniente dal pollame; tra il 2014 e il 2016 (con alcuni focolai attivi ancora oggi) in Africa è comparso il terribile virus Ebola trasmesso da specie diverse di animali selvatici. Pochissimi anni fa, nel 2015, ha fatto la sua comparsa, in Medio Oriente, la MERS, probabilmente originata dai dromedari mentre il 2016 si fa ricordare per il virus brasiliano Zika che le zanzare veicolano dalle scimmie.
In Italia dopo anni di tagli spesso indiscriminati, si sta finalmente comprendendo la necessità di investire nella sanità pubblica nel suo insieme. Si dovrebbero quindi aprire prospettive nuove, nell’ottica della cosiddetta One Healt, la sanità che coniuga uomini, animali e ambiente in un triangolo virtuoso. La medicina veterinaria italiana, un vanto del nostro Paese, pur sottoposta a diete dimagranti a dir poco perniciose anche per i riflessi sull’agricoltura e l’industria agro-alimentare, è pronta per il salto di qualità. E Brescia, con l’Istituto Zooprofilattico “Bruno Ubertini” (pioniere della lotta alla tubercolosi bovina, parente stretta di quella umana, e del carbonchio) ha molte carte da giocare. Lo attestano le ben sette competenze internazionali attribuite (Centro di collaborazione FAO e 6 Laboratori di referenza OIE (l’Organizzazione mondiale della sanità animale) a cui vanno aggiunti 13 Centri di referenza nazionale.
“Provvedere, prevedere, prevenire” è il motto ufficiale che caratterizza questo Istituto la cui importanza non sempre è stata e viene percepita appieno. Una partita probabilmente decisiva per la zootecnia italiana – la vexata quaestio degli allevamenti intensivi e la loro iperdiffusione in aree ristrette – potrebbe forse trovare una decisiva stanza “bresciana” di compensazione nel Centro di referenza nazionale per il benessere animale per forza di cose chiamato a svolgere un ruolo sempre più significativo e attivo. Senza dimenticare gli altri Centri di referenza nazionali: Formazione della sanità pubblica veterinaria; i Rischi in sicurezza alimentare e Metodi alternativi, benessere e cura degli animali da laboratorio.

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