Mentre crescono le preoccupazioni per l’escalation missilistico-nucleare innescate dal protagonismo senza senso del dittatore nord-coreano Kim Jong-un che gioca a lanciare missili e ogni tanto si scalda con un test nucleare aprendo prospettive terrificanti per il mondo intero, più di una speranza viene dal profondo oceano Pacifico e più precisamente dalle sperdute isole Marshall di cui fa parte anche l’atollo di Bikini. Famoso, questo atollo, non solo per il costume da bagno femminile a cui ha dato il nome e che ha rivoluzionato, negli anni tra il Cinquanta e il Sessanta del secolo scorso, il modo di vivere – come non ricordare?, icone indelebili di un’autentica rivoluzione sessuale e di vita, le mosse fintamente innocenti di BB (Brigitte Bardot) o, un poco più tardi, l’emersione dalla spuma delle onde, novella Venere nordica, della statuaria Ursula Andress nel primo film de “l’Agente 007”– ma anche, purtroppo, per essere stato teatro dei test nucleari americani condotti negli anni ’40 e ’50. Esperimenti iniziati nel 1946 e conclusi nel 1958. Qualcosa come 23 testate atomiche, di cui 20 a idrogeno, sono cadute su Bikini fino al 1954 quando lo scoppio di Castle Bravo, terrificante in quanto molto più potente del previsto dai militari (15 megatoni di potenza contro i 4,5 ipotizzati: 1.100 volte la potenza della bomba di Hiroshima), portò alla sospensione dei test su Bikini. Sganciata il 1 marzo 1954, la “madre di tutte le bombe” come la potrebbe definire l’attuale presidente-cowboy degli Stati Uniti Donald Trump, lasciò una traccia indelebile del suo passaggio: la distruzione di tre isole, l’apertura di un cratere largo 2 km e profondo 73 metri. Onde alte fino a 30 metri trasportarono milioni e milioni di tonnellate di sabbia e di residui altamente radioattivi fino a 150 km di distanza. Finalmente nel 1958 cessarono definitivamente anche i test sulle restanti isole Marshall.
A distanza di 70 anni da quegli anni terribili, simbolo della strategia del terrore che ha comunque preservato il mondo dall’olocausto nucleare, le isole Marshall, con l’eccezione dell’atollo di Bikini, sono ritornate abitabili. Bikini, dichiarato dall’Onu contaminato in misura “praticamente irreversibile” nel 2012, meglio le sue acque, oggi denotano confortanti segni di ripresa della vita marina. E’ quanto ha constatato e documentato un gruppo di biologi marini-sub della famosa Università di Stanford (Usa) che questa estate si sono immersi a 70 anni dall’esplosione. I risultati della loro missione sono confluiti in un documentario della serie Big Pacific che è stato trasmesso sul canale Pbs il 28 giugno scorso. Malgrado l’ancora massiccia presenza radioattiva di cesio-137, i coralli sono cresciuti fino a 3-4 metri di ampiezza con rami di 30 cm di diametro. Per dare un ordine di grandezza dell’ inquinamento radioattivo, il livello di radiazioni presenti a Bikini è 20 volte maggiore rispetto a quello rilevabile a Central Park nel cuore di New York. Nelle scogliere sono stati visti squali e tonni, mentre i granchi si nutrono normalmente di noci di cocco nel cui “latte” è presente il cesio radioattivo. Aspetto molto importante – che sarà oggetto di specifici studi genetici mirati – i crostacei sembra non presentino segni di deformazioni. A detta degli esperti, che per le loro stime si sono basati sulle caratteristiche morfologiche dei coralli, la loro rinascita risale a circa 50 anni fa, in pratica dopo 10-20 anni dallo scoppio nucleare.
Nel 2008 un altro gruppo di biologi australiani si immerse nella voragine e già allora constatò che i coralli stavano rifiorendo, anche se con un numero di specie inferiore, grazie all’apporto delle colonie provenienti dal vicino atollo di Rongelap.
In ultima analisi la natura sta risanando, con i suoi tempi, le ferite e, aspetto che dovrebbe farci riflettere, l’assenza dell’uomo (che non può vivere in quelle acque troppo radioattive ed è quindi costretto a starsene lontano) facilita, e di molto, il recupero naturale. Come dire che, alla fin fine, il problema siamo sempre noi.