“150 Anni di armi riadattate o improvvisate per rapinare, cacciare di frodo o portare a casa un po’ di ciccio per far sopravvivere la famiglia”

Patty Pravo, una delle ultime signore rimaste della canzone italiana direbbe “pazza idea” e noi saremmo con lei d’accordo: è stata proprio una “pazza idea, nell’accezione nobile del termine. Un’idea insolita, anche un poco fuori o sopra le righe ma espressa con passione e convinzione e con gli occhi che guardano non davanti per abitudine ma all’indietro per scelta a cercare ricordi sfumati e forse annebbiati dal tempo, quanto veri, a volte anche sanguinanti, sempre vissuti. Fuori di metafora, è questa la prima sensazione che ci è venuta spontanea appena venuti a conoscenza della mostra “Briganti, bracconieri e poveri diavoli” che trova la sua ragion d’essere nella specificazione: “150 anni di armi riadattate o improvvisate per rapinare, cacciare di frodo o portare a casa un po’ di < ciccio > per far sopravvivere la famiglia”. Una specificazione in sole due o tre righe che ci sembra compendi generazioni di fatiche immani, tribolazioni oggi impensabili e il vuoto sociale che ha contraddistinto la vita di tanta parte del mondo contadino praticamente fino alla metà del secolo scorso. Sia ben chiaro che la nostra non è una scivolata buonista in direzione del pauperismo e neppure la benevola comprensione di atteggiamenti anarcoidi o populisti, come forse si potrebbe dire con il linguaggio di questi giorni: no è la semplice costatazione che, per mille motivazioni e circostanze storiche e sociali, il mondo delle campagne – e soprattutto la sua parte più debole: quella dei braccianti e dei mezzadri – ha sofferto e subito angherie sfruttamenti ed umiliazioni che hanno avuto per corollario la miseria più nera – il riferimento al < ciccio > nella sua semplicità anche lessicale è semplicemente emblematico – accompagnate da malattie (ad esempio pellagra e tbc) invalidanti ed estranianti anche sotto l’aspetto sociale. Un plauso convinto quindi (pur consapevoli che le nostre parole sono ben poca cosa), a prescindere dal momento espositivo vero e proprio, per chi, per mezzo di questa mostra di armi “riadattate o improvvisate … reperti disdegnati dai collezionisti e tenuti in scarsa considerazione, sono invece lo specchio di un’epoca che è finita forse non più di 50 anni fa”. Forse prima, aggiungiamo noi: agli albori del mitico boom economico di fine anni Cinquanta primi del Sessanta del Novecento. Nessuna accondiscendenza, quindi, da parte nostra per chi, queste armi, le abbia usate per commettere reati contro le persone, ma un invito a considerare con una certa indulgenza – diremmo doverosa e pensosa indulgenza – chi, queste armi, “per usarle per scopi di caccia (le ha) profondamente trasformate al punto da rendere difficile capire da quale modello originale derivino. Per questo nelle teche, quando è stato possibile, si è posto al loro fianco anche l’esemplare di fucile nelle condizioni < originali > “. Tra i pezzi più significativi – sono parole dell’ing. Alberto Riccadonna, conservatore del Museo della Armi Antiche “F.Baboni” di Castellucchio e curatore della mostra, sulle spalle studi giuridici abbinati ad una laurea in ingegneria che ne fanno un esperto di balistica e di armi in generale di prima grandezza con un curriculum sostanziato da numerose consulenze e perizie anche per tribunali e forze dell’ordine – viene segnalato un trombone “scavezzo”, cioè col calcio pieghevole incernierato per meglio nasconderlo sotto al tabarro, della seconda metà del Settecento e un fucile Mauser del 1940 “adattato per cacciare … i passeri”.

A questo punto, la notizia è arrivata nel mentre stavamo scrivendo questo articolo, non possiamo esimerci dal manifestare tutta la nostra riprovazione per un ex armaiolo di 67 anni, arrestato in flagrante dai Carabinieri a Gussago, importante e bel paese ai margini della bresciana Franciacorta celebrata per gli spumanti, scoperto a sparare agli uccelli di passo con un “bastone-fucile” da lui stesso fabbricato. Allo scopo di lucrare sulla vendita degli uccelli per lo spiedo che, per inciso, proibiti come sono, raggiungono quotazioni incredibili e assurde. Un comportamento assolutamente inaccettabile e da condannare, questo dell’ex armaiolo, lontano anni luce da chi, il bracconiere, lo faceva per portare a casa un “po’ di ciccio”.

Buona parte delle armi esposte in mostra sono state salvate dalla distruzione ed acquisite in questi ultimi anni. Per lo più si tratta di armi recuperate nei vicini campi di battaglia – San Martino e Solferino, Goito, Pozzolengo sono tutte località, sedi di battaglie anche molto importanti, facilmente raggiungibili da Castellucchio – che purtroppo hanno funestato questi territori a cavallo fra le provincie di Mantova e Brescia.

Prima di concludere un qualche cenno al contesto territoriale. Il comune di Castellucchio, un piccolo paese che dista da Mantova, tanto per stare in tema, pochi tiri di schioppo (11 km) è adagiato tra i fiumi Oglio e Mincio. E’ terra fertile e ricca d’acque (si spera ancora, dati i tempi) e di agricoltura forte. La Torre civica, vanto locale, dove ha sede il Museo, è stato costruito nel IX secolo: alta circa 24 metri ha base quadrata di 8 metri x 8. Le armi e “gli oggetti attinenti” sono stati raccolti con grande entusiasmo, ma senza pretesa di specializzazione, da Fosco Baboni, avvocato del luogo e cultore del teatro dialettale: sue diverse divertenti commedie sono state rappresentate con grande successo.

La collezione, donata al Comune nel 1987, è composta da 125 pezzi tutti catalogati e schedati: 61 armi bianche, 34 armi da fuoco e 30 pezzi attinenti. Fra le armi bianche sono segnalate, in un sito del Mibac (Ministero Beni Culturali), un aguzzo del XVI sec., uno spiedo di guerra del XVII sec., tre spade dell’Ottocento, alcune baionette a manicotto e ghiera e una sciabola piemontese da ufficiale di artiglieria a cavallo.

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