Una pittura problematica che interroga e fa pensare
Alla considerevole età di 93 anni, lo scorso 24 ottobre, nella sua Bagolino, la cittadina montana in alta Valsabbia (provincia di Brescia) dove era nato il 1 giugno del 1922, Antonio Stagnoli ha chiuso gli occhi. La nera falce ha così spento la sua voce, la sua grande possente voce di artista problematico quanto vero: una voce possente e intrigante nell’espressione artistica quanto era debole, gutturale, faticosa ad esprimersi e difficoltosa da capire quella fisiologica, in quanto sordomuto a causa di una malattia infettiva contratta quando aveva solo due anni e mezzo. Orfano di padre, di famiglia povera, figlio di una terra difficile e agra in tempi ancora agri per tutti, Stagnoli, grazie all’intuito e alla carità cristiana di un prete, don Faustino Moretti direttore del benemerito “Pio Istituto Pavoni” di Brescia, malgrado tutto potè studiare all’Accademia d’Arte di Brera a Milano che affinò e corroborò anche tecnicamente le sue indubitabili innate doti di disegnatore e pittore.
Chi scrive non è un esperto di pittura e non sa discettare di quadri, di movimenti artistici, di interpretazioni raffinate o dotte e/o semplicemente fatte passare per tali dietro perifrasi non di rado al limite del comprensibile. Desidera semplicemente rendere omaggio, ricordandolo, a un grande artista, a quello che considera un vero maestro senza ipocrisie commerciali o di comodo, per l’emozione, e non di rado anche lo sconcerto, che i suoi quadri gli hanno procurato. Una pittura, quella di Stagnoli,che non può passare inosservata – piaccia o meno, poco importa – in quanto sostanziata dalla realtà drammatica di chi vuol gridare e non può materialmente farlo, di chi ha lavorato tanto faticosamente e a lungo da avere le mani contorte come le radici di una pianta e le dita che ricordano i rametti nodosi di certi alberi. Le figure, per lo più maschili – scarne, essenziali, gravate da espressioni sempre severe, con un fondo di malinconia che traspare anche nei “balarì” del famoso carnevale bagosso ricco di ori e del ritmo delle manfrine suonato fino allo sfinimento fisico – esibiscono, con composta e consapevole fermezza, le difficoltà della vita e interrogano – sempre – lo sguardo e i pensieri dell’osservatore. Il paesaggio è aspro, il più delle volte montuoso e come tale. Non solo metaforicamente, faticoso da percorrere. Gli animali, presenze importanti nelle sue tele, sono quelli tipici della montagna che accompagnano il pastore come le vacche, i cani, le pecore e soprattutto le capre. Non mancano ovviamente gli uccelli e, fra questi, quelli cosiddetti di bassa corte in quanto allevati per il consumo alimentare: galli, galline e tacchini. Semplicemente straordinari i tacchini, immortalati i maschi mentre esibiscono le loro code quasi fossero pavoni nella stagione degli amori. In questo caso i colori abbondano – cosa rara nella sua pittura giocata soprattutto sui toni scuri, se non addirittura neri – e rimandano, credo, al desiderio di sognare ad occhi aperti e di vedere il mondo a colori e non solo in bianco e nero.
L’archistar Mario Botta ha scritto che “Stagnoli è un testimone impressionante, nel suo mostrarci maschere che somigliano a uomini e uomini che somigliano a maschere, animali dall’aria umana e viceversa”. Ci sembra abbia perfettamente ragione: basta guardare il muso di certi cani – fin dove cani e fin dove uomini? – che rimandano ad immagini e forse incubi ancestrali. E cosa dire delle sue amate capre? Ammirate e forse invidiate per la loro capacità di sapersi inerpicare sui costoni anche più difficili, sanno vivere della poca erba che brucano laddove pochissimi altri animali (dalle nostre parti i soli camosci) sanno arrivare e, contrappasso pieno di importanti significati simbolici, producono un latte “leggero” ma particolarmente ricco di sostanze nutrienti. Come dire che anche dalle difficoltà più estreme si può trarre linfa vitale: basta volerlo ed essere capaci di farlo.
Molti i contributi critici che, già in vita, sono stati dedicati a questo cantore della “sua” montagna intesa come metafora della vita degli ultimi, fra i quali ci limitiamo a citare i due film-documentario che Elisabetta Sgarbi, con felice acutezza femminile accompagnata da una sincera ammirazione, ha dedicato al maestro: “Fantasmi di voce” del 2003 e “Sono rimasto senza parole” del 2011. All’incirca un mese dopo la sua morte – ma il libro era già in avanzato stato di preparazione – è uscito l’album fotografico “Antonio Stagnoli nelle fotografie di Gianni Berengo Gardin”: un poetico reportage rigorosamente in bianco e nero – i due estremi (gli artisti della Leika, Berengo Gardin, e del pennello, Stagnoli) che si toccano e si integrano vicendevolmente – corroborato dai testi di Franca Grisoni, Franco Loi, Roberto Mussapi e Davide Rondoni. Testimonianze di Piero Borghini, Omar Galliani, Giacomo Gnutti, Pino Morgiello, Giacomo Scanzi, Romeo Seccamani, Luca Vitale, Marco Vitale. Il tutto condito da Mario Zanetti. Edizione Skira e Studio d’Arte Zanetti.
Info: www.zanettiarte.com