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In questi ultimi anni la morsa convergente della crisi economica che ha tagliato la capacità di spesa dei consumatori, le istanze animaliste e le suggestioni vegetariane unite all’evoluzione degli stili di vita (che mettono in continua discussione in particolare il consumo delle cosiddette “carni rosse”), hanno comportato un calo considerevole del consumo di carni bovine, quantificato nell’ordine del 3-3,5 per cento. Premesso che le motivazioni di chi rifiuta l’uccisione di animali ad uso alimentare per ragioni etiche o filosofiche vanno rispettate, ancorchè non necessariamente condivise, resta il fatto che quella della carne bovina è un’industria di assoluta importanza ed espressione di una tradizione che si perde nella notte dei tempi. Semplificando al massimo i concetti e arrotondando i numeri, in base alla usuale tripartizione fra Nord, Centro e Sud dell’Italia, nel primo abbiamo il 70% del patrimonio bovino, nel Centro l’8 e nel Sud il rimanente 22 per cento. Il numero complessivo degli addetti alla filiera ammonta a 80.000 unità. Sempre squilibrata la bilancia commerciale che evidenzia un import del 40% del fabbisogno nazionale. In base a stime ritenute dagli addetti ai lavori attendibili, il consumo italiano “ apparente “ pro capite annuo – che indica la quantità di alimento prodotto nel suo insieme e quindi anche le parti non edibili – è complessivamente di 75 chilogrammi: 20 chili di carne bovina, 36 di suina e 19 di avicole. Soprattutto per ragioni di costo, anche nel 2014 il trend positivo delle carni suine ha segnato un + 2,8%; parimenti di segno positivo il comparto avicolo che da una decina d’anni registra un incremento medio annuo dell’1%. In Italia il consumo complessivo pro capite settimanale è stimato in circa 600 grammi, quantità considerata intermedia rispetto agli eccessi che si registrano in diversi paesi soprattutto del Nord ma che alcuni nutrizionisti considerano comunque troppo elevata rispetto ai 400 grammi settimanali da questa corrente di pensiero ritenuta ottimale. Il morso della crisi economica trova conferma da un lato nel forte incremento delle vendite di macinato e hamburger (ovviamente meno costosi) e, al contrario, nella forte riduzione delle vendite di tagli pregiati quali il roast-beef e le bistecche. Per quanto concerne i canali di vendita la GDO (supermercati ed ipermercati) coprono il 65% delle vendite, mentre il restante 35% è appannaggio delle macellerie che si stanno vieppiù specializzando nella vendita di tagli scelti e in ogni caso di migliore qualità con la riscoperta della figura professionale del macellaio “ vissuto “ dalla clientela come consulente d’acquisto e fornitore di preparazioni gastronomiche e di piatti scelti. Per tornare agli aspetti per così dire salutistici, precisato che come sempre gli eccessi provocano effetti negativi per la salute e che pertanto l’aureo detto latino che “in medio stat virtus” (la virtù sta nel mezzo) rappresenta la strada maestra da percorrere, va decisamente considerato che la carne, in particolare quella bovina, costituisce un’importante fonte di proteine e di altri micronutrienti molto utili per l’organismo umano. In altre parole un consumo equilibrato e responsabile , che tenga nel dovuto conto anche il valore economico culturale e sociale delle carni bovine, è raccomandabile, appagante per il consumatore e sostenibile sotto il profilo ambientale. Per quanto concerne la salubrità e l’igienicità, vale sempre la regola che i controlli devono essere efficaci e continui ma va pure detto e ribadito che il sistema di prevenzione e i controlli sanitari in Italia occupano posizioni di vertice a livello internazionale. I 4500 veterinari pubblici che coordinano i controlli ufficiali coadiuvati dalle diverse forze di polizia (Nas dei Carabinieri in primis, un corpo molto specializzato e di grande competenza tecnica), la rete degli Istituti zooprofilattici e degli altri enti incaricati delle analisi di laboratorio e le norme di autocontrollo previste dai consorzi o altri organismi dei produttori agricoli offrono ampie garanzie in merito all’igienicità e alla qualità sanitaria delle carni. In questo senso il nostro paese si posiziona sicuramente all’avanguardia in ambito internazionale. Ad ulteriore tutela della salute pubblica – non a caso a vigilare sul tutto è giustamente il Ministero della Salute – interviene per legge la cosiddetta tracciabilità che consente il controllo e il monitoraggio delle diverse fasi a partire, nel nostro caso, dalla produzione dei mangimi da parte dell’industria mangimistica, all’allevamento zootecnico propriamente detto, dalla macellazione alla lavorazione della carne per finire con la distribuzione che prevede anche il controllo della catena del freddo nei siti di vendita. I risultati, pur in presenza, ovviamente, di situazioni abnormi e/o di illegalità, sono confortanti anche per quanto riguarda la presenza di residui di sostanze nocive o vietate nelle carni (ad esempio anabolizzanti, estrogeni o medicinali). Negli ultimi tempi, anche sulla spinta di un’opinione pubblica giustamente sempre più attenta alla tematica del benessere animale, i controlli e gli interventi sono aumentati e divenuti vieppiù stringenti ma su questo fronte – tecnicamente complesso e molto costoso in particolare per gli allevatori – gli obiettivi da raggiungere sono ancora parecchi. Va pur detto che la situazione va progressivamente migliorando, forse con un andamento un poco lento.

Prima di concludere una qualche notazione riferita all’ambito bresciano. Nel 2014 (dati di fonte Upa) la produzione lorda vendibile di carne bovina è stata di 184,577 milioni di euro (+ 3,75%).

I vitelloni a carne rossa (il tradizionale manzo), hanno contribuito con 192.655 quintali per un valore di 43,4 milioni di euro (-3,07%) mentre i vitelli a carne bianca hanno prodotto 405.446 qli per complessivi 116,363 milioni di euro (17%).

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